Per la fortuna del De vulgari eloquentia nel primo cinquecento: Bembo e Barbieri
1997
Dopo secoli di abbandono, nei 1529 vedeva la luce il De Vulgari Eloquentia nella traduzione italiana eseguita dal letterato vicentino Giangiorgio Trissino1. L' opera dantesca, menzionata in maniera vaga e senza una conoscenza diretta del testo per tutto il Trecento ed il Quattrocento2, era stata riscoperta e conseguente mente discussa soltanto nei primi decenni del Cinquecento con il concomitante affiorare della questione linguistica. II merito di tale rilancio spetta proprio al Trissino3, che venuto in possesso d'un codice del trattato dantesco (l'attuale 1088 della Biblioteca Trivulziana di Milano4), ne espose, forse tra amici, i tratti significativi, accompagnandoli probabil mente con una interpretazione che risulta dagli scritti successivi. Secondo tale interpretazione la distanza tra i Pulci e Lorenzo da un lato e Dante dall'altro non dipendeva ?daH'evoluzione nei tempo della lingua di Firenze, ma dal minor munici palismo e maggior discernimento degli scrittori antichi, che non avrebbero scritto in 'mero fiorentino' come i quattrocentisti, ma in una lingua mista, italiana?5. Come e noto, questa posizione provoco, tra la fine del 1524 e il 1525, la risentita
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